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MANON DELLE SORGENTI
(MANON DES SOURCES)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 26 febbraio 1987
 
di Claude Berri, con Emmanuelle Béart, Yves Montand, Daniel Auteuil, Hippolyte Girardot (Francia, 1986)
 
"Attore, regista, produttore Claude Berri è un uomo forte del cinema francese. Un produttore che ha avuto il coraggio di far filmare a Polanski quel film luminoso e fremente che è Tess, in un'epoca nella quale le ricostruzioni storiche d'ispirazione romantica appartenevano ormai al mondo delle illusioni. Un regista che Truffaut aveva indicato come il solo erede di quel mito nazionale che risponde al nome di Marcel Pagnol. Sarà stato o meno il risultato di quelle due componenti della personalità di Berri: la conseguenza è che l'anno d'oro del cinema di Francia (che ha valso opere del livello di Le rayon vert, Mélo, Round Midnight, Thérèse) si arricchisce di qualcosa d'impossibile. Una grande produzione (in effetti il film più caro che sia mai stato prodotto in Francia), un film "come quelli che si facevano una volta"; e un successo di pubblico che poteva anche non essere evidente. Jean de Florette e Manon des sources, i due lunghi episodi che illustrano il romanzo di Pagnol L'eau des collines (e che saranno riproposti in televisione in una versione ancora più estesa) sono infatti attualmente al secondo e terzo posto delle classifiche, preceduti soltanto da Out of Africa di Pollack.

Pagnol aveva dapprima girato il film Manon des sources, nel 1952: una specie di somma, di ripensamento della cultura provenzale da parte di un regista che la rappresentava dagli inizi degli anni trenta. Fu dopo l'uscita del film che Pagnol decise di scrivere il romanzo: aggiungendoci il lungo prologo (quello che oggi appare in Jean de Florette) nel quale si chiariscono le motivazioni della vendetta di Manon. Questo spiega una certa qual differenza tra i due episodi, perlomeno a livello di sceneggiatura: Manon ricalca un film esistente, Jean si costruisce sopra un'opera letteraria.

Ambedue costituiscono comunque un avvenimento del tutto anomalo: riproporre a quasi quarant'anni di distanza l'inimitabile universo di Pagnol. Tutto basato sulla forza del dialogo, sulla presenza degli attori, sulla quasi noncuranza per quello che fu definito lo specifico cinematografico. Noncuranza che, per quel paradosso che regge come altri l'imponderabile artistico, permise allo sfondo (quello più genuino, con i suoi suoni, i suoi umori, i suoi significati più dimenticati) di risaltare con forza sorprendente. Tanto da far dire a Rossellini che il vero padre del neorealismo era proprio lui, l'autore del "teatro in conserva".

Berri, quasi un provocatore, ripropone tutto ciò: in un'epoca nella quale dei temi come la siccità, la proprietà terriera, il patriarcato, l'eredità hanno ornai assunto un'importanza, o perlomeno dei toni, del tutto diversi. Ecco perché un film come questo Manon va visto in un modo del tutto particolare. Come un omaggio, come un atto di sfida: non s essere caduti completamente nel ridicolo, nell'accademismo decorativo (anche grazie al talento dell'operatore "moderno" Bruno Nuytten) o nell'esibizione del divo in costume mascherato (Montand, Depardieu, Auteuil e gli altri si sforzano con successo di non cadere nel macchiettismo) è già un risultato che testimonia dell'impegno di Berri. Certo, questa rivisitazione di Pagnol e del territorio provenzale rimane un'illustrazione che scivola in superficie. Come quelle lunghe panoramiche che accompagnano le deambulazioni dei protagonisti, ripetitive e non certo esplicative. Come quelle ricostruzioni dei villaggi, con le galline che transitano al momento giusto, e la topografia teatrale. O gli interventi dei personaggi secondari, che in Pagnol erano occasione di approfondimento psicologico, qui soltanto di apparizione quasi decorativa.

Eppure il film si vede, e senza noia, fino alla fine: quello che ci trattiene è un elemento che spesso è ormai assente dal cinema "moderno": la forza, il potere del racconto. E questo fascino, questo richiamarsi al nostro bisogno di finzione - anche nei suoi schemi più elementari e forse scontati, che alimenta i due film di Berri. E che rende sincera, ed in definitiva riuscita, l'impossibile resurrezione del mondo di Pagnol."


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